DNA: origini dell’identificazione e del fingerprinting
di Nicolina (Nikka) Mastrangelo
Il Dna tra tutti gli strumenti biometrici è in assoluto il materiale più informativo che possa esistere, il cui potere e impiego come strumento d’identificazione è stato riconosciuto già molto tempo. Guardando avanti si può ben capire come le sue potenzialità vanno ben oltre i dati che può fornire al momento.
Il DNA, ormai noto a tutti anche come acido desossiribonucleico, è una molecola contenuta in tutte le cellule del nostro organismo, organizzato in 23 coppie di cromosomi (22 coppie autosomiche e 1 coppia legata al sesso), per una lunghezza di circa un metro, compattata per essere contenuta nei pochi micron del nucleo cellulare.
È depositario delle informazioni ereditarie contenute nei geni che si stimano in un numero che va oltre i 20-30000. Questa osservazione ci dà idea dell’imponenza dei dati in esso codificati. L’informazione genica è, però, racchiusa in una piccola porzione del “codice genetico”: solo l’1,5% delle informazioni corrispondono a regioni codificanti (regioni esoniche) e dunque circa il 98.5% del genoma umano è composto di sequenze non codificanti (regioni introniche o junk DNA). Per DNA non codificante si intende ogni sequenza di DNA in un genoma non soggetta a trascrizione in RNA messaggero (mRNA, intermedio a singola catena che contiene le informazioni che verranno tradotte in proteine) o rimossa da questa prima della traduzione (introni) e che viene perciò considerata, apparentemente priva di funzione.
La biologia studia la vita, alla cui base c’è proprio la molecola del DNA senza la quale nessun essere vivente sarebbe tale, la genetica è, invece, la branca della biologia che studia il nostro codice. All’interno di questa disciplina si sono sviluppate altre specializzazioni proprio per la complessità della materia, delle richieste e delle esigenze in campo medico e non.
Dalle richieste del mondo giuridico e dell’investigazione nasce la genetica forense. Essa si occupa di associare il DNA a persone, di generare un profilo conoscitivo, unico e indiscutibile da attribuire ad un individuo. Il DNA fornisce, sotto tale aspetto: unicità (non esistono due individui al mondo con lo stesso corredo genetico, a parte i gemelli omozigoti); è uguale in tutte le cellule e non varia durante il corso dell’esistenza; per metà deriva da un genitore e per metà dall’altro (questo comporta che ciascun gene abbia due forme alternative definite alleli).
Queste caratteristiche fanno si che sia un esclusivo strumento biometrico, e al pari delle impronte digitali, le origini dell’identificazione e del profiling genetico sono non poco recenti.
Infatti, la possibilità di discriminare gli individui, di identificarli con un’ “impronta genetica”, ebbe inizio nel 1900 quando Karl Landsteinerw scopri i polimorfismi genetici dei gruppi sanguigni (presenza di più forme alternative di un gene), il noto sistema AB0 e che introdussero il concetto di variabilità. Questo sistema rappresenta il primo marcatore genetico ad essere usato nelle scienze forensi, successivamente integrato dal sistema MN (1927) e dal fattore Rh (1937). Anche se scarsamente informativi, questi rappresentano un timido inizio di applicazione delle analisi biologiche in ambito comparativo/identificativo. Negli anni Settanta e Ottanta vi furono progressi nell’analisi di differenti forme di enzimi (isoenzimi) nei globuli rossi e nel siero sanguigno. La certezza che il campione provenisse dal sospettato dipendeva dal numero di proteine analizzate (solitamente quattro); questa sicurezza fu denominata “potere di discriminazione”. Il potere di discriminazione fornito dalla combinazione di queste tecniche era ancora pari a 1:1000, sicuramente meglio dell’1:10 ottenuto dall’analisi dei gruppi sanguigni, ma ancora non sufficiente.
Per avere un maggior potere di discriminazione, ci fu bisogno di studiare in maniera più approfondita la nostra composizione genetica.
In realtà la svolta nel campo medico e biologico si ha a partire dal 1953 quando Watson e Crick giunsero a intuire quale fosse la struttura del DNA. Questa scoperta ha cambiato la storia della biologia, della genetica e della medicina. I due scienziati ipotizzarono che il DNA si componesse di due catene di nucleotidi disposte in senso antiparallelo a formare una doppia elica e ripiegate in una struttura che ricorda una scala a chiocciola (Watson & Crick, 1953). Ciascuna catena polipeptidica è composta chimicamente da un’unità comprendente una base azotate legata a una molecola di ribosio ed a un gruppo fosfato. Le basi azotate, classificate in purine (adenina e citosina) e pirimidine (timina e guanina) si trovava, nella catena polipeptidica una di fronte all’altra: l'adenina (A) si lega alla timina (T) mentre la citosina (C) si lega alla guanina (G). I legami tra le basi puriniche e pirimidiniche avvengono tramite ponti idrogeno che consentono alle due catene polipetptidiche del DNA di organizzarsi come previsto da Watson e Crick in maniera antiparella e complementare. La scoperta delle basi azotate e quindi della struttura molecolare del DNA si devono agli studi di Erwin Chargaff negli anni compresi tra 1944-1950.
Dobbiamo, invece, ad un genetista inglese, Alec Jeffreys, la scoperta della tipizzazione del DNA, o “DNA fingerprinting”, avvenuta nella seconda metà degli anni ’80. Jeffreys scoprì che alcune regioni del DNA non codificante, “Junk”, contenevano sequenze altamente ripetute, e che la lunghezza di tali sequenze variava da individuo a individuo, quindi non si ripetevano allo stesso modo.
Ciò consentiva di attribuire un profilo genetico specifico ad un individuo, un’“impronta” , sulla base della lunghezza delle sequenze ripetute, e quindi polimorfiche (sequenze soggette a variabilità). Tali sequenze ripetute sono chiamate VNTRs, variable number of tandem repeats o DNA minisatellite anche note come RFLP, polimorfismi di lunghezza dei frammenti di restrizione poiché la loro rilevazione avviene per l’impiego di particolari enzimi che tagliano nelle regioni fiancheggianti le VNTRs. La separazione dei frammenti si ottiene per elettroforesi su gel, una tecnica che consente la separazione delle molecole di DNA (cariche negativamente) opportunamente caricate in un gel, grazie all’applicazione di un campo elettrico che spinge le cariche verso il polo opposto consentendo la corsa differenziata dei frammenti. A questa fase segue una di rilevazione in cui i frammenti separati mediante elettroforesi vengono trasferiti su filtro di nitrocellulosa ed ibridati (appaiati per complementarietà tra basi) mediante sonde single locus e/o multi locus marcate con radioattivo (tecnica del Southern Blotting) e rilevate mediante autoradiografia: il pattern risultante simile ad un codice a barre, rappresentato dalle bande di lunghezza diversa, è unico per ciascun individuo da qui il nome di DNA fingerprinting. In virtù della corta sequenza di ripetizione, (unità oligonucleotidiche da 10 a 60 pb) tali regioni risultavano facilmente differenziabili sulla base del peso molecolare, ma ciononostante questa tecnica si rivelo limitata da: quantità di campione richiesto, dai 30-50 µg; scarsa sensibilità; tempi di analisi fino ad una settimana; impossibilità di automazione; scarsa sicurezza per l’impiego di molecole radiattive; scarso potere discriminante (si sarebbero dovuti comparare quattro diverse VNTR per avere un potere di discriminazione pari a 1:1 milione (molto meglio del 1:10 offerto dal sistema AB0) e limitata caratterizzazione, convalida, delle regioni da poter utilizzare come marcatori.
Bibliografia
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