Misure alternative e lavoro carcerario: per rientrare oltre il muro.
“La civiltà di un popolo si misura dalle sue carceri” (Voltaire)
I primi anni settanta vedono la nascita di numerosi dibattiti in merito alla questione carceraria sfociati in diversi interventi legislativi, alternando momenti di innovazione ad altri di regressione, determinati da periodi più o meno difficili della storia della Repubblica.
Il momento di evoluzione della normativa carceraria è rappresentato dall’emanazione della riforma dell’ordinamento penitenziario, varata con la legge n. 354 del 26 luglio 1975.
Con la nuova normativa, viene superato il concetto di pena come espiazione, scompare l’idea retributiva della sanzione per lasciare spazio ad una prospettiva nella quale il carcere non è più inteso come luogo di segregazione e di allontanamento dalla società, ma come momento di attivazione di un processo di rieducazione e risocializzazione del reo in proiezione del suo reinserimento nella comunità civile.
Si delinea, dunque, un nuovo sistema basato su due presupposti tra loro interconnessi: il superamento del carcere come unica possibile risposta al problema della devianza sociale e l’individualizzazione e la flessibilità del trattamento del condannato. L’obiettivo della rieducazione e del recupero del reo non viene perseguito attraverso la somministrazione della pena ma conformandola alle effettive esigenze della personalità del condannato che emergono dalla sua osservazione durante il periodo di reclusione.
Elemento fondamentale introdotto dalle riforme del ’75 sono le misure alternative alla detenzione che, attraverso la concessione di spazi sempre più ampi di “non reclusione”, offrono al ristretto la possibilità di ristabilire, o in alcuni casi di non interrompere, il legame con l’ambiente esterno, nella prospettiva della sua progressiva reintegrazione nel tessuto sociale produttivo.
Per misure alternative si intendono:
L’affidamento in prova al servizio sociale fuori dall’istituto per un periodo uguale a quello della pena da scontare, se la condanna inflitta non supera i tre anni. La concessione della misura è subordinata all’esito positivo dell’osservazione diretta della personalità del detenuto in istituto o, in alternativa, del comportamento del condannato dopo la commissione del reato.
L’affidamento in prova in casi particolari, che consente alle persone alcooldipendenti o tossicodipendenti che abbiano in corso un programma di recupero o che intendano sottoporvisi, di essere affidati in prova al servizio sociale per proseguire o intraprendere l’attività terapeutica sulla base di un programma concordato con una AUSL o con gli enti, le associazioni, le cooperative ed i privati contemplati dalla L. 21 giugno 1985 n. 297.
La detenzione domiciliare, che permette a particolari categorie di soggetti con condanna non superiore a quattro anni (donna incinta o madre di prole di età inferiore ad anni dieci con lei convivente; padre esercente la potestà di prole di età inferiore ad anni dieci con lui convivente, quando la madre sia deceduta o altrimenti assolutamente impossibilitata a dare assistenza alla prole; persona in condizioni di salute particolarmente gravi che richiedono costanti contatti con i presidi sanitari territoriali; persona di età superiore a sessanta anni, se inabile anche parzialmente; persona minore di anni ventuno per comprovate esigenze di salute, di studio, di lavoro e di famiglia) di espiare la pena nella propria abitazione o in altro luogo di privata dimora ovvero in un luogo di pubblica cura, assistenza o accoglienza.
Il regime di semilibertà, che consiste nella concessione al recluso di trascorrere parte del giorno fuori dell’istituto per partecipare ad attività lavorative, istruttive o comunque utili al reinserimento sociale. I soggetti ammessi al regime di semilibertà sono assegnati ad appositi istituti o sezioni autonome di istituti ordinari ed indossano abiti civili.
La liberazione anticipata. Al condannato a pena detentiva che ha dato prova di partecipazione all’opera di rieducazione è concessa, quale riconoscimento dell’impegno, e ai fini del suo più efficace reinserimento nella società, una detrazione di quarantacinque giorni per ogni singolo semestre di pena da scontare.
La decisione di introdurre misure alternative al carcere, deriva dalla deludente constatazione degli scarsi effetti sul piano dell’efficacia rieducativa dell’ambiente carcerario, se non addirittura controproducenti e desocializzanti, in particolare per pene di breve durata, che comunque comportano l’interruzione dei rapporti sociali e professionali, la creazione di un pregiudizio legato allo stato di detenzione ed una difficoltà nell’intraprendere un percorso riabilitativo, data la breve durata della permanenza all’interno dell’istituto di pena.
Un ulteriore importante strumento, in un’ottica di risocializzazione, introdotto dalla suddetta riforma, è quello del lavoro carcerario, valutato non solo quale elemento centrale dl trattamenti per gli internati ma anche e soprattutto quale componente fondamentale del processo di rieducazione e reinserimento dei detenuti. In particolare, la nuova normativa sancisce che il lavoro penitenziario abbia organizzazione e metodi che riflettano quelli del lavoro nella società libera, al fine di far acquisire ai detenuti una preparazione professionale adeguata e da agevolarne il reinserimento sociale.
Carcere e lavoro rappresentano un binomio controverso che ha seguito, e segue, l’evoluzione delle diverse concezioni legate alla dimensione afflittiva o riabilitativa della detenzione. Con il passaggio, come si è detto, da una logica afflittiva-punitiva della pena ad una dimensione risocializzante del carcere, il lavoro penitenziario acquisisce un ruolo sempre più strategico all’interno del percorso di reintegrazione a pieno titolo nella società dei ristretti. Con l’affermarsi, quindi, di una logica trattamentale-rieducativa del carcere, il lavoro, soprattutto extra-murario, diventa una componente fondamentale del processo di risocializzazione del reo, assumendo la funzione di anello di congiunzione dell’esperienza dentro e fuori dal carcere.
A partire dalla metà degli anni ottanta la materia del lavoro carcerario si impone con forza all’attenzione della società ed esce dal contesto ristretto degli addetti ai lavori per diventare un problema connesso con la democraticità della società stessa. Si afferma l’idea che il percorso per il reinserimento inizi già all’interno del carcere, prima che il soggetto diventi un “ex detenuto” e come tale si trovi in un mercato del lavoro, già fortemente competitivo, discriminato e senza un progetto di vita.
Al di là delle norme e dei dati, il problema del lavoro è anche, e resta soprattutto, un problema culturale. In una società nella quale la crisi economica e la logica competitiva penalizzano i più deboli, creando sempre più ampie sacche di emarginazione, il mondo del carcere fatto di individui che non hanno voce per rivendicare i loro diritti, diventa un “pianeta di invisibili”, lontano dai problemi della società.
I pregiudizi del contesto sociale nei confronti di chi ha un’esperienza carceraria pregressa, accompagnati alla progressiva deprofessionalizzazione del detenuto, obbligati di frequente in carcere ad una inattività forzosa, contribuiscono a ridurre le possibilità di reinserimento post-carcerario.
In tale contesto, il lavoro all’esterno del carcere e il fenomeno cooperativistico, sono diventate sempre meno esperienze occasionali e sempre più opportunità uniche per il detenuto per iniziare a pensare ad un concreto progetto di vita futura.
Ma se è vero che la civiltà di un paese si misura dalla civiltà delle sue carceri, diventa importante promuovere interventi per contribuire a risolvere la gravità del problema.
Bibliografia
Giammello V., et al., (2013), Il lavoro nel carcere che cambia, Milano, Franco Angeli.
Grande M., Serenari M.A., (2002), In-Out. Alla ricerca delle buone prassi: formazione e lavoro nel carcere del 2000, Milano, Franco Angeli.
Ramaci T., Santisi G., (2012), in Psicologia di Comunità, n. 1.